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Foto: FreeDigitalPhotos.net |
Si chiama Queers,
che in slang inglese significa
“finocchio”: si tratta di una nuova app
per smartphone, lanciata all’inizio
di gennaio da un giovane omosessuale cinese, Bill Zhong, 23 anni.
Tale applicazione consente a gay e lesbiche di combinare matrimoni bianchi, eterosessuali e,
naturalmente, di copertura, al fine di vivere la propria sessualità con
maggiore discrezione, senza che il nucleo familiare e sociale venga a
conoscenza della propria “diversa normalità”.
Sembra che l’applicazione, in sole due settimane, abbia già
raggiunto oltre 10.000 iscrizioni e che il suo successo sia destinato ad aumentare
in modo esponenziale; è stata, infatti, accolta favorevolmente e con grande
entusiasmo dalla comunità LGBT cinese.
Come funziona? Semplice! Basta inserire il numero di
telefono, la foto e i dati personali; e in men che non si dica, gli iscritti
avranno la possibilità di trovare un partner
“di facciata” per la vita… quella socialmente accettabile.
In Cina l’omosessualità è stata considerata reato fino al
1997 e malattia mentale fino al 2001; tuttora rimane un grande tabù e, come nel
resto del mondo, il pregiudizio nei suoi confronti comincia già all’interno
delle mura domestiche.
Quali le possibili conseguenze?
Personalmente, ritengo che una scelta dettata SOLO dal
bisogno di condiscendere la propria società/cultura di riferimento non possa
che favorire l’alienazione personale e una sorta di ghettizzazione dell’intera
comunità LGBT.
Le conseguenze sul piano sociale non possono che essere negative,
favorendo e rinforzando il pregiudizio, lo stigma e la condanna che crescono in
modo inversamente proporzionale alla visibilità individuale e collettiva delle
persone omosessuali.
Sul piano individuale, ritengo che l’autostima, il senso di
un Sé coeso ed unitario (un senso di “sana identità”) siano fortemente minati e
potrebbero facilmente tradursi in un malessere psichico degno di attenzione
clinica. La scissione tra ciò che viene mostrato al mondo e ciò che viene
vissuto in assoluta segretezza, la discrepanza cognitiva, emotiva e
comportamentale tra l’intimità finzionale vissuta nel matrimonio e la
sessualità consumata fuori da esso non possono essere considerate un indice di
salute mentale e sono, quasi sempre, accompagnate da vissuti di vergogna,
colpa, disistima e da malesseri ad essi associati (ansia, depressione, abuso di
sostanze e molte altre patologie).
Un’ultima considerazione riguarda la convivenza forzata tra
i due “coniugi” (e qui il virgolettato è d’obbligo): non credo che condividere
la stessa menzogna possa essere un collante sufficiente a vivere in armonia
sotto lo stesso tetto.
Sul piano inconsapevole, è molto più probabile che il coniuge
venga vissuto come un intruso, come colui, o colei, che impedisce l’unione con
la persona amata/desiderata. Ne possono derivare sentimenti di rabbia,
irritazione, rancore, disappunto o vero e proprio odio.
Cerchiamo di non importare almeno questa "idiozia"; lasciamola ai cinesi.
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